Scambio letterario: Corpi isolate – Nuovi spazi | #WirinderZukunft – Tandem 4/4

Lockdown in Germania e in Italia: la scrittrice Sandra Hoffmann e la scultrice Claudia Haberkern scrivono – ciascuna per sé, e tuttavia insieme – delle loro esperienze riguarda il confinamento durante la pandemia del Corona Virus. Uno scambio letterario sull’isolamento, la speranza e il potere del linguaggio – il nostro quarto Tandem su #Noinelfuturo.

Waldweg: Symbolhaft für den literarischen Austausch: Isolierte Körper - Neue Räume. Das vierte Tandem von #wirinderZukunft mit Sandra Hoffmann und Claudia Haberkern.
Scambio letterario #WirinderZukunft

“Poi, di punto in bianco, nel mese di marzo di quest’anno, ogni casa italiana diventò un’isola. Ogni posto di lavoro, ogni macchina per strada, ogni persona in fila per fare la spesa.“

Siamo nella primavero del 2020, in Germania e in Italia – come in molti altri paesi europei – vennero applicate delle misure di confinamento. Mentre negli ospedali le persone lottano in un isolamento assoluto per la propria vita, molti altri ballano e cantano sui balconi contro la paura e la solitudine. 

Nei loro testi letterari, Sandra Hoffmann e Claudia Haberkern descrivono la sensazione di Isolamento, che le rinchiude – dalla casa fin nel proprio corpo. Tramite il linguaggio aprono spazi, oltre la strettezza dell’isolamento. 

Sandra Hoffmann: Corpo e Quarantena

La quarantena è un luogo solitario. Il mio corpo lo conosce fin dalla nascita. Non appena sgusciato fuori dal corpo di mia madre, c’era da traslocare lì. Forse che non abbia conosciuto il termine – quarantena – ma esperiva cosa significa. Capiva: qui si è soli col proprio battito di cuore. Non più la madrelingua, non più il calore dell’altro corpo. Si è arrivati da poco e, nel caso peggiore, non c’è neanche un’altra voce. 
Essendo da soli, il proprio corpo si fa sentire più forte. Si sente battere il cuore, si sentono i rumori dello stomaco, dell’intestino, e più di tutto si sente la propria voce; i suoi ronzii e borbotti, i suoi dubbi e strilli. Ma ascoltando molto bene, si comprende che la propria voce cerca il dialogo. Il dialogo con un Tu. 
Nella quarantena il Tu parla con l’io. Nella quarantena, fuori e dentro sono all’improvviso lo stesso luogo. Io e Te siamo seduti dentro e discorriamo. Solo che non mi rispondi perché Ti manca un corpo Tuo. M’ascolti e resti muto perché sei io. Parlo con Te. Parlo e parlo. Mi sfogo, mi tolgo di dosso la rabbia e lo strazio e faccio domande. E in realtà m’aspetto una risposta. Vorrei che mi dici: sono qui. Sono l’altro e ho una mia voce e ho un mio orecchio e un mio cuore e un mio stomaco ecc. Ti ascolto. Poiché una propria voce è infatti un proprio corpo. L’altro: la cui voce non si leva da me e non nasce nemmeno dentro di me. Colui, la cui voce non sono io. 
Nella quarantena, il proprio corpo è anche il corpo dell’altro. Sono abitata da un Tu. Tu mi abiti, e non sei nemmeno qui.
Ci volevano tre settimane dopo la mia nascita, prima che il mio corpo fosse abbastanza forte per poter lasciare la quarantena.
Fino ad oggi mi chiedo cosa ho sentito lì. Fino ad oggi sono volentieri da sola unicamente se posso raggiungere Te. Chiunque Tu sia. Tu non stai dentro di me. Tu sei un altro corpo.

Claudia Haberkern: L’Isolamento – un sincero tentativo di sgrossarlo per bene

Quando Sandra mi chiese alcune settimane fa, se volevo essere il suo partner tandem in questo progetto, ero davvero felice! L’idea originale era che rispondo sui testi di Sandra con una scultura o un altro lavoro visuale, ad esempio con dei bozzetti in fil di ferro. Ma non mi usciva nulla … ero assolutamente bloccata. Quindi mi sedevo e iniziavo a scrivere. 

Lo tiro fuori dal fondo dello scaffale e ci metto mano di nuovo … a questo lavoro mezzo finito, pieno di polvere. In passato era stato il mio più ambizioso progetto. Ma ormai è da anni che non lo guardo più. Solo oggi ci torno su e davvero voglio sgrossarlo per bene e capire una volta per tutte cos’ha da dirmi questa dura, ottusa parola: “L’Isolamento”. 
In una prima fase, l’avevo chiamato in un modo diverso, il nome del lavoro era stato meno ostico. Ma è passato un sacco di tempo; l’ho dimenticato. Finiva sempre nello stesso modo: scavando, tagliando, togliendo non riuscivo tuttavia mai ad andare oltre il primo e più palese contenuto della parola: isola. Dopodiché, in qualche modo, mi mettevo l’anima in pace accontentandomi: sarà anche uno sviluppo scontato, mi dicevo, ma ho cmq tramutato la miserabile strettezza implicita nell’isolamento, in un ambiente aperto, l’isola, circondata dalla vastità. Questo era un fatto, e con lo stile di vita appartato che era diventato il mio, ne avevo bisogno.

Poi, di punto in bianco, nel mese di marzo di quest’anno, ogni casa italiana diventò un’isola. Ogni posto di lavoro, ogni macchina per strada, ogni persona in fila per fare la spesa; ogni ospedale. No, gli ospedali no. Essi non erano isole, ma isolati dal resto dell’umanità, straripando di persone più strettamente isolate ancora. Persone – ridotte ai loro corpi – con o senza tubo nella gola – costrette a far l’ultimo bilancio della propria vita in solitudine, costrette a partire senza salutare nessuno;

erano questi morenti e questi morti a pressarmi a riprendere l’Isolamento l’ennesima volta. 

Morire così … da lebbrosi. Catapultati fuori da ogni contesto. Assumersi, oltre alla propria, anche la paura di coloro che ti accudiscono. Non avere la possibilità di un’ultima parola forse mai pronunciata, di un ultimo desiderio. Non aver nessuno che ti tenga la mano. Aver solo l’immane confusione di un ospedale andato in tilt che si sovrappone alla confusione tua, irrefrenabile e solitaria.

La gente, a questo punto, aveva già cominciato a cantare, suonare e ballare sui balconi. Ho ammirato tali atteggiamenti in reazione ad una situazione così drammatica ed inimmaginabilmente claustrofobica e ne ho tratto grande inspirazione. Intravedevo una connessione con il mio travaglio riguardo all’Isolamento.

Dicono che nascita e morte siano i momenti più importanti della vita. O forse me lo immagino solo e non l’ha mai detto nessuno? Certo è che tra i mesi di marzo e aprile del 2020, molti Italiani erano pervasi dall’innegabile sensazione che fosse davvero così e che ogni persona senza nessuna eccezione meriti una morte dignitosa; che la morte meriti un posto rilevante; che vivere isolati, a volte sarà anche inevitabile, ma morire isolati: No! Avevo la forte impressione che siano stati giorni, in cui la compassione usciva dalla sfera di competenza delle donne di una certa età per diventare, invece, patrimonio spontaneo di quasi tutti. 

In quel periodo mi è capitata tra le mani una poesia di Giuseppe Ungaretti, Dove la luce. L’ultimo paragrafo, un frammento di cinque righe, si rivelò essere un’ulteriore tesserina per venire a capo con il mio lavoro sull’isolamento. Avevo tolto sempre più roba e iniziavo a concentrarmi su Sol. 
Sembra impossibile, una pazzia, e può darsi che nella stessa misura in cui nessuno avrebbe iniziato a cantare o ballare sui balconi senza l’emergenza, così, in tempi normali, neanche questo sole si sarebbe affacciato. Chi lo cercherebbe mai dentro l’isolamento?? Ma invece eccolo, nella seconda sillaba: è una fonte di calore sicura; illumina il paesaggio con una luce d’oro e ha un’energia sussurrante, amorevole, ma anche trascinante … anzi, trasformante. 
Le parole di Ungaretti dicono così:

Venite! vi porterò
Alle colline d’oro
L’ora costante, liberi d’età
Nel suo perduto nimbo
Sarà vostro lenzuolo

Confesso: Dove la luce non è stata scritta per i morti. È una poesia d’amore. Ho soltanto lievemente modificato il frammento qui riportato, facendo sì che il poeta parli con molte persone, anziché solo con l’amata. Ho anche aggiunto il punto esclamativo dopo la prima parola. Ho immaginato i musicisti e cantanti sui balconi contattare, attraverso l’energico invito di Giuseppe Ungaretti, tutti quei connazionali che stavano morendo nelle circostanze Covid: trasformando completamente l’atmosfera nelle loro stanze, le sale, i corridoi degli ospedali, e anche nei loro pensieri; ho immaginato che l’intensità della poesia d’amore possa davvero spazzare via l’aria pesante della sofferenza – tirare fuori il sole e cambiare a questi morenti l’ultimo lenzuolo.

Sandra Hoffmann: A casa

Foto: Sandra Hoffmann #wirinderZukunft
Foto di Sandra Hoffmann

Vieni ti porterò
Alle colline d’oro
L’ora costante, liberi d’età
Nel suo perduto nimbo
Sarà nostro lenzuolo.
(da Ungaretti “Dove la luce?”)

Da quando sono diventata colei che sono oggi, una che spiega il mondo ininterrottamente a se stessa con delle parole, una che costantemente è alla ricerca di parole che spiegano meglio il mondo, da allora il mio mondo è migliorato. Ho trovato una casa. Una casa che così non l’ho mai prima avuta. In passato le mie parole e quelle delle persone con le quali vivevo, erano talmente differenti, che si perdevano sulla strada da qui a là, e un tipo di parola e l’altro tipo di si passavano davanti a vicenda senza incontrarsi. alcune volte si fermarono, si guardarono, stettero lì un po’ e continuarono sulla propria strada poco dopo. Da quando m’intendo di parole, da quando vivo dentro le parole o sono a casa nelle parole, da quando lavoro con le parole, aggiungendo parola dopo parola alla mia vita, mi muovo in un mondo con persone che s’intendono anche loro di parole, o ad ogni modo, conoscono il significato delle parole. È diventato la mia casa.
Quando la parola Virus assunse questo peso, come Corona, come Covid, come Crisi, come Confinamento, ho iniziato con lo scrivere qualcosa di nuovo. Mi sono ritirata in me stessa. E ho aspettato. Ho aspettato che le prime parole si ritrovassero per qualcosa che non conosco ancora. Storie, ne sono certa, esistono prima che io le conosca. Conosco dei personaggi, dei posti, conosco voci di personaggi e se riesco a seguirli, mi raccontano la loro storia. Non volevo scrivere della crisi durante la crisi. Volevo mettermi in cammino durante la crisi, verso una storia che c’era già molto prima della crisi e resterà tanto tempo dopo la crisi.
Andavo nel bosco. Cominciavo a cercare parole, che, lontanissime dall’epidemia, descrivessero i colori del bosco, dei prati, dei muschi, cominciavo a cercare le parole nelle quali riecheggiassero i rumori del bosco e i suoi animali, iniziavo a cercare le parole per la luce del bosco a tutte le ore del giorno, iniziavo a raccontare. Sto raccontando tuttora. Percepivo come le parole del bosco occupavano spazio dentro me, che velocemente diventava più vasto, più grande, più largo e più alto di quello spazio che il virus si era preso a inizio crisi. Il virus occupava allora lo spazio delle mie parole. Quando mi alzavo al mattino, le parole degli articoli sui giornali, del telegiornale, delle informazioni scientifici e dei commenti da tutto il mondo s’insediarono dentro di me riempiendomi. 
Mi riempivano talmente, che le parole del mondo dove sedevo guardando, le parole del bosco, le parole del paesaggio, i linguaggi degli animali non trovarono più spazio dentro di me. Le parole della crisi stroncarono le parole che erano state lì già prima, tentando di diventare una storia. Iniziavo a togliere dello spazio alle parole della crisi, iniziavo a spostare i telegiornali, gli articoli e le mie preoccupazioni in altri spazi più piccoli. Così comparvero alcuni spazi con la crisi e alcuni spazi senza crisi. Gli spazi senza crisi, li volevo più vasti degli spazi con la crisi. Quando riuscivo in questo, le parole senza crisi spuntarono fuori da me, crearono un nuovo spazio e infine iniziarono ad assemblarsi per diventare una storia. Questa storia sta crescendo ancora. Non so precisamente dove andrà, ma cresce bene quando le dò uno spazio nel quale non ticchettano né orologio né crisi.
Credo che scrivere una storia significhi abbandonare per un certo tempo il mondo, nel quale viviamo. In favore delle parole, quelle parole che devono assemblarsi in uno spazio, che riguarda solo la storia che è sfuggita al tempo. Lì, sono poi a casa soltanto le parole della storia e io.

Claudia Haberkern: Nuovi Spazi

“Impregna, impregna l’aria – di solidarietà!”. Non era un pensiero. Quando me ne sono accorta era già lì. Un prodotto del mio inconscio, credo. Nato nella prima metà di marzo del 2020. L’ho trovato un po’ patetico, ma il modo come si aggirava nella mia mente era simpatico; come un ritornello per bambini, una filastrocca. 

Le circostanze che lo hanno provocato, invece, di simpatico non avevano nulla. C’era da osservare mondialmente il solito effetto-crisi: che colpiva con più forza coloro che stavano male già prima. Più che mai il radiogiornale era pieno di insopportabili notizie. 
All’emergenza sanitaria si aggiungevano dei problemi di mera sopravvivenza e anche in certe aree in Europa, la rivolta sociale è stata un rischio concreto. A fine marzo c’erano dei casi di assalti alle casse dei supermercati nel meridione d’Italia – non da parte di ladri che volevano soldi, ma di famiglie con i carrelli pieni di viveri e il portafoglio vuoto.
La sofferenza era intensificata dovunque si guardasse. L’elenco sarebbe infinito. 
Forse per sopportare meglio questa consapevolezza, la ragazzina in me si faceva avanti, formulando il ritornello di qui sopra. Effettivamente, se tutti inspirassimo la solidarietà insieme all’aria, il mondo sarebbe in un altro stato. L’ambiente incluso. 

… Impregnare, permeare l’aria. Creare nuvole di solidarietà … Come si farebbe? Respirando? Parlando? Lavorando? Pensando?

Die Künstlerin im Atelier. Claudia Haberkern
Foto di Claudia Haberkern

E se l’idealismo è proprio inevitabile, allora perché non semplicemente “Solidarietà!”?
L’idea, che la crisi Covid 19 potrebbe condurre ad un nuovo inizio, in cui valori come ad esempio la solidarietà avrebbero avuto la meglio sui soliti meccanismi della nostra epoca, era seducente per molti. Ma addirittura la ragazzina in me stentava a crederci. Si è sognata un metodo sottilissimo per somministrare la solidarietà a tutti: l’inalazione.

Il dilemma tra ideale e realtà, guardando il mondo (ma anche me stessa), pare essere una volta per tutte irrisolvibile. Inoltre, l’epoca del social distancing e della comunicazione digitale sempre più spinta davvero non si prestano a nutrire un sentimento che potrebbe assomigliare alla solidarietà. E, visto l’ipotesi di diversi scienziati che questa pandemia potrebbe essere solo la prima di una serie a venire c’è da chiedersi, se l’umanità non sia destinata a disgregarsi in circa otto miliardi di placchette tettoniche che si allontanano sempre più l’una dall’altra. 

La fase 1 del lockdown è durata sette settimane. Io, che vivo in mezzo alle risaie dove non c’erano controlli, ero fortunata perché almeno potevo camminare nei campi. Ma per il resto mi rivolgevo verso l’interno – come milioni o miliardi di persone nel mondo intero. 
In casa, in laboratorio, in magazzino e nei ripostigli, su e giù per le scale – trafficando fin negli angoli più dimenticati, m’imbattevo in un sacco di cose, oggetti e cimeli di diversi periodi del mio passato e m’accorgevo che quasi tutti richiamavano dei momenti particolari e belli. Ce ne sono tantissimi e mettendoli insieme costituiscono una piccola collezione.

L’oggetto più fragile è una piuma di un grande uccello bianco, trovata circa 30 anni fa nel parco di Belleville a Parigi. È ancora bianca, ma in diversi punti come rosicchiata da insetti. Un po‘ sbrindellata, un po‘ arruffata, mi fa tenerezza, quasi come se fosse un essere vivente.
O la piccola pietra a forma di cuore, lisciata dal mare – natale 1987 in spiaggia a Punta del Diablo in Uruguay. Notabene … Punta del Diablo!
O la tavoletta con il mio nome e quello della mia amica coabitatrice che stava sulla nostra porta d’ingresso dell’appartamento a Kreuzberg. Era il 1983?

O il melograno rinsecchito ma bellissimo lo stesso, proveniente dal giardino di un mio ex-amore. 
O la bottiglietta di profumo disegnata da Niki de Saint Phalle, vuota da decenni ma sempre fragrante quando si apre. Un regalo da mio papà per un compleanno, forse il diciottesimo.
Ecc. ecc. 

Una collezione di piccole e di grandi gioie; non smettevo di meravigliarmi! Gettava una luce nuova sull’ idea che mi ero fatta della mia vita che giudico così spesso negativamente. Ma la vera scoperta era che queste reminiscenze creavano in me come uno spazio di inedita leggerezza, nel presente, senza una traccia di nostalgia. Non c’entrava il passato, ma l’apertura che generava. 
Con una parte degli oggetti ho allestito un angolo vicino alla finestra verso est che dà sui campi. Mi piaceva l’idea che i primi ad essere toccati dal sole ogni mattina erano loro e immaginavo che così “tingevano” il giorno intero.

È qui, secondo me, che la mia esperienza incontra la tua, Sandra. Ad entrambe si è rivelato un nuovo spazio; il tuo con la storia che deve nascere. Il mio con un nuovo consenso, una nuova visuale sulla mia vita.

Credo che faccia parte dell’essere umano, conoscere questo tipo di spazi. Ma siamo forse soprattutto noi artisti ad averne maggiore dimestichezza, perché senza andarli continuamente a cercare, nulla di vivo può nascere. E se tutto va bene, possiamo poi trasmettere: spazio; non il nostro! ma quello proprio a chi guarda, legge, ascolta ecc. Tale spaziosità, sì, è una metafora, ma è soprattutto una sensazione, anche corporea.

Più avanti ho usato l’immagine delle placche tettoniche che si allontanano l’una dall’altra per descrivere i nostri rapporti sotto l’effetto della sempre maggiore digitalizzazione, e come conseguenza degli eventuali lockdown a venire. Credo non esista nulla per evitare questa tendenza. Ma favorire l’esperienza degli spazi e anche sensibilizzarsi per riconoscere gli “ammazza-spazi” già prima di esserne sopraffatti …. potrebbe aiutare. 

Ho perso per strada la solidarietà, cioè la sua inalazione? Me ne rendo conto … dovrò continuare a rifletterci. Ma ho la sensazione di essere sulla buona pista; la mia piccola collezione c’entra. E c’entrano soprattutto gli spazi.

Sandra Hoffmann: Siamo vulnerabili

“Impregnare“, scrivi, permeare l’aria, ma io penso anche a quell’altro significato, a “impermeabilizzare”, come se la parola avesse fatto un salto nel suo contrario. Io penso a bombi e api e vespe, a falene e vanesse, a cedronelle e a pavonie e macaone, a cinciallegre e merli e passeri e diversi tipi di fringuelli in tutti i colori. Vedo immagini di luce e vedute aeree, vedo animali volanti davanti al cielo, vedo rondini nel vento, volo alto, volo basso e tutto così bello, penso. E poi: stop! Guarisci guarisci, benedizione, domani pioverà, dopo domani sole e tutto andrà bene. 
Ero in città, esclamo e te lo mando in Italia, nelle risaie dove vivi, ero a Berlino, Amburgo e ti dico che l’aria fa come se non ci fosse stato nulla, e addirittura le persone fanno come se non ci fosse mai stato nulla. Ma c’è stato qualcosa. C’è qualcosa. Qualcosa sta nell’aria. C’è qualcosa che impregna l’aria. Ero in città, ero nel cielo del virus, cielo delle goccioline, e non ne ho visto nulla. Il cielo era un bel cielo. Ritengo di essere vulnerabile, ritengo che lo siamo tutti. Penso sia importante dirlo. Credo che la percezione e il processo che genera la parola, che il parlare porti ad un cambiamento. Siamo vulnerabili, dico, e che cosa succederebbe se ce lo dicessimo una volta? Buongiorno, siamo vulnerabili! Buon appetito, siamo vulnerabili! Sogni d’oro, siamo vulnerabili! Bello vederti, perché siamo vulnerabili! Dio, quanto sto bene oggi, siamo vulnerabili! Giornata di merda, siamo vulnerabili! Che cosa succederebbe se smettessimo di fingere che tutto va sempre bene o che passerà in fretta? Guarisci, guarisci, benedizione, domani pioverà, dopodomani neve, e poi non farà più male! – Una volta, otto anni fa, e non è una fiaba, ero malata di cancro. Avevo paura per la mia vita. Oggi, otto anni più tardi, benché continui a star bene, non passa un solo giorno in cui non penso che potrebbe tornare. Gli ultimi otto anni della mia vita erano forse i miei migliori fino ad ora. – Siamo vulnerabili. 
E cosa succederebbe se ci impregnassimo contro la credenza che tutto sia come prima? Pre-Covid = Post-Covid! Se ci impregnassimo contro l’aria dell’invulnerabilità? Se ci impregnassimo con la vulnerabilità? Cosa succederebbe, se ci solidarizzassimo ancora oggi per dire: guarda nel cielo; è effimero. Cioè, se guardassimo nel cielo per vedere tutte le poiane, i nibbi, i pipistrelli, le beccacce e le zanzare, i calabroni e le api mellifere, i maggiolini e gli scarabei stercorari, gli scarabei di giugno e le lucciole, i passeri e i stormi delle gru; se, anziché vivere solo la loro bellezza, ci guardassimo negli occhi dicendoci ciò che sappiamo: sono vulnerabili. Come noi. E sono belli. E sono belli come è bello il cielo. E sono belli come la vita. Cosa succederebbe se, anziché impregnare l’aria, ci solidarizzassimo ogni giorno contro la carenza di empatia, contro la speranza che tutto andrà bene. Se ci impregnassimo con la speranza che continui in peggio, ma che questo ci porti a diventare delle persone migliori?

Mattina

Landschaft am Morgen. Foto: Claudia Haberkern
Foto di Claudia Haberkern

Quando ho letto la tua pagina sulla vulnerabilità, Sandra, mi è venuta in mente ancora una volta una poesia di Ungaretti. C’è un nesso con il tuo pensiero, soprattutto considerando che la poesia sia stata scritta in trincea nel 1917 (Ungaretti era un semplice soldato e serviva al fronte vicino a Trieste). 
Sono tre righe (titolo incluso) e non è davvero possibile, neanche con la migliore delle traduzioni, trasmettere l’assoluta bellezza che esprimono, insieme alla brevità del momento in cui questa assoluta bellezza dev’essere stata un vissuto reale per Ungaretti. 
“Mattina” fa parte della raccolta intitolata “L’Allegria” (!!!) che raduna le poesie dell’esperienza di guerra.

Molti hanno paragonato i tempi di Covid 19 alla guerra. Ovviamente è inadeguato, anzi molto inadeguato, perché fa perdere il senso delle proporzioni e deforma la nostra percezione. 
Ma se questa crisi aiutasse a ricollegarci … con delle fonti che abbiamo perso di vista …. allora si trasformerebbe inevitabilmente in qualcos’altro … e chissà se trasformerebbe anche noi.

Vorrei quindi condividere questa poesia: non ha un’aura di preziosità? Mi succede di associarla con un diamante ogni volta che la penso. Ed è bello, finire il nostro scambio con la nascita di un nuovo giorno:

Mattina
M’illumino
D’immenso

Traduzione dal tedesco: Claudia Haberkern
Per i testi in Tedesco cliccare qui. 

É un progetto che fa parte del 360°-Fonds per culture della nuova società urbana. 

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Sandra Hoffmann (Foto: Armin Kratzert)
Sandra Hoffmann (Foto di Armin Kratzert)

Sandra Hoffmann (*1967 a Laupheim, Baden-Württemberg) scrive per DIE ZEIT, Bayerischer Rundfunk e Südwestrundfunk. Ha pubblicato cinque romanzi più un libro per ragazzi. Ha ottenuto numerosi premi e stipendi. Ultimamente, per il suo romanzo “Paula”, ha conseguito uno stipendio di lavoro del ministero bavarese di scienze e arte, oltreché uno stipendio del fondo per la letteratura tedesca e il premio Hans Fallada. Sandra Hoffmann conduce dei seminari di scrittura nella Literaturhaus a Monaco e insegna alle università di Karlsruhe e Augsburg oltreché nei Goethe-Institut di diversi paesi.

Foto: privato

Claudia Haberkern (*1960 a Heilbronn) arriva all’arte plastica e la scultura attraverso il teatro sperimentale e la performance art. Le sue opere sono trasformazioni filigrane, traducono la natura in arte. Dal 1993 espone i propri lavori. Nel 2004 ottiene il premio Cesare Pavese in scultura. 2011 su invito di Marco Vallora partecipazione al padiglione Italiano della Biennale di Venezia, Torino. 2013 e 2014 partecipa all’International Art Fair di Gyeongnam in Korea. Ultime mostre personali: 2017 “Summer’s Distillation II”, Passionsspielhaus Selzach, Svizzera; 2015 “Summer’s Distillation”, Sicoh Gallery, Tokyo e “Disegni e Forme” Creatini e Landriani Gallery, Sestri Levante Dal 1990 vive e lavora in Piemonte, Italia.

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